INTRODUZIONE ALL’ARCHEOASTRONOMIA

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Janus (Ale)
view post Posted on 15/12/2011, 10:00 by: Janus (Ale)
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Angelo

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IL CIELO ANTICO: IL SOLE


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E’ quasi scontato ricordarlo, ma ovviamente il fulcro del pantheon di quasi tutte le civiltà antiche era rappresentato dal Sole: uniche eccezioni i popoli del deserto, per i quali in genere esso era un nemico da evitare. Era invece alla Luna, alla notte ristoratrice e fertilizzante, che andavano rivolte le preghiere.
Come si può notare dalla figura qui a fianco, il Sole è anche uno dei più antichi simboli “sintetizzati” dalla mente umana: i punti di partenza erano la forma del cerchio (simbolismo condiviso anche dal cielo) e la croce, a rappresentare i quattro punti cardinali. Imprimendo un moto rotatorio all’incrocio delle linee otteniamo una visualizzazione simbolica del movimento solare (categoria C nell’immagine). Nascono in questo modo alcuni simboli che ben conosciamo, come la già citata spirale, il triscele e la swastika. (Vivenza, 2006, p. 400 - Godwin, 2001, pp. 174 e segg. - D'Anna, 2006, pp. 66 e segg.) Quest’ultima, diffusa un po’ in ogni parte del mondo (vedere l’esempio hindu qui a fianco) ha avuto, a dire il vero, anche un marcato simbolismo polare. Quest’ultimo è facilmente intuibile osservando in cielo la rotazione dell’Orsa Maggiore intorno alla Stella Polare.


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Il percorso del sole in cielo venne studiato dagli uomini fin dall’antichità più remota, ancora prima dello sviluppo dell’agricoltura: scopo fondamentale doveva essere probabilmente un’esigenza di sopravvivenza, ovvero gestire le scorte alimentari dell’inverno. Per ottenere questo, diventava importantissimo conoscere quindi con esattezza la fine del periodo freddo.

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I momenti fondamentali dell’anno erano ovviamente quelli che segnavano l’inizio delle quattro stagioni: il ciclo annuale vede infatti il sole percorrere ogni giorno un arco nel cielo diurno, sempre diverso da quello della giornata precedente e dalla successiva. La fase “crescente” inizia col solstizio invernale (il giorno in cui il sole percorre il suo arco più basso, sorgendo a Sud-Est e tramontando a Sud-Ovest), proseguiva poi per i mesi di gennaio e febbraio per arrivare al “punto di equilibrio” nell’equinozio di primavera (nel quale le ore di luce e buio si equivalgono perfettamente ed il sole sorge e tramonta perfettamente sull’asse Est-Ovest). Da questo momento le ore diurne prevalgono su quelle notturne: si arriva così al punto più alto del sole, il solstizio estivo, con alba a Nord Est e tramonto a Nord Ovest. In questo giorno il nostro astro raggiunge a mezzogiorno il suo punto più elevato: quasi sopra le nostre teste. Da questo momento esso comincia a “ritirarsi”, le giornate cominciano ad accorciarsi e si ritorna in una situazione speculare a quella primaverile: l’equinozio d’autunno.
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Ritornando all’arco più stretto, quello invernale, il ciclo ricomincia con la “resurrezione” del Sole, come ci ricorda l’antica festività romana del Sol Invictus, coincidente col nostro Natale (Altheim, 2007). Agli occhi degli antichi, tutto questo era rappresentato dal simbolismo delle porte solstiziali (Gasperoni Panella, Cittadini Fulvi, 2008, pp. 45 e segg.): gli archi disegnati in cielo dal Sole nei suoi due punti estremi, i solstizi, erano immaginati come due porte, la Porta degli Uomini a giugno e la Porta degli Dei a dicembre. Come già detto, la Via Lattea era il “sentiero delle anime morte” che vagavano in cielo in attesa di una collocazione definitiva: i “momenti di passaggio” loro concessi per abbandonare la situazione di precarietà erano appunto le due porte solstiziali. Attraverso la Porta degli Uomini (concessa a tutti) era permesso loro di tornare ad incarnarsi, a nascere un’altra volta sulla Terra; passando invece attraverso la Porta degli Dei (riservata a pochi eletti) essi potevano invece concludere per sempre le proprie peregrinazioni e raggiungere la beatificazione, il Paradiso. A presiedere ai due varchi, già citati in Omero, c’era, secondo i Romani, il dio dei passaggi e delle iniziazioni per eccellenza: Giano Bifronte (Guénon, 1990, cap. 37) Una traccia di questa usanza rimane nel nome del mese che segue il solstizio invernale, chiamato gennaio ovvero Januarius in onore proprio di questa divinità. In epoca cristiana la sua figura venne poi assimilata con quella dei due San Giovanni solstiziali: il Battista (la cui festività non a caso cade il 24 giugno) e l’Evangelista (celebrato il 27 dicembre). (Guénon, 1990, cap. 38). Dal punto di vista simbolico essi ben si sovrapponevano alla figura del dio pagano, rappresentandone il primo la faccia anziana (a simboleggiare il vecchio anno) ed il secondo la metà giovane (l’anno nuovo).
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In effetti, il Battista ben può essere considerato il “precursore” (il tempo passato) che anticipa la venuta di Cristo (identificabile col presente) mentre San Giovanni Evangelista (il futuro) ne è senza dubbio l’erede designato. Le due Porte dei solstizi dividevano il cielo in tre grandi aree: quella in cui si muovono il Sole, la Luna, i pianeti ed i segni dello Zodiaco (la Terra dei Vivi), il Regno degli Dei che occupava la parte settentrionale del cielo (quella della stella polare e delle costellazioni circumpolari, che non sorgono e tramontano mai: ovvia l’associazione tra il non tramontare, l’immortalità e la divinità), e la Terra dei Morti, il regno di Orione (identificato in Egitto con Osiride, il dio degli inferi). Esso regnava all’estremo Sud del cielo, dove sono visibili solo costellazioni eternamente basse sull’orizzonte. Quest’ultima zona era anche chiamata Oceano (ed infatti ospita molte costellazioni dai nomi “acquatici” come la Nave Argo, il Pesce Australe, l’Idra (serpente marino), il Ceto (la balena). Essa rappresentava le profondità ctonie, infere, della Terra che vivevano nell’oscurità ed ospitavano il vero e proprio Regno dei Morti identificato dagli antichi con la stella Canopo -ritenuta erroneamente la “stella polare del Sud”- (De Santillana, Von Dechend, 2003, p. 89).

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Dal punto di vista dell’archeoastronomia, non è sicuramente un problema trovare un esempio di edificio orientato sul percorso del sole: sarebbe casomai raro trovarne uno che sia allineato esclusivamente su altri corpi celesti! Dovendo quindi per brevità fornire un esempio, non posso che scegliere il simbolismo delle chiese medievali. La figura di Cristo era infatti fin dall’epoca paleocristiana associata al Sole ed alla luce (Baudry, 2007, pp. 97 e segg.), in questo ponendosi ancora una volta sulla scia dei culti solari della tarda romanità.
E’ cosa risaputa che l’orientamento absidale fosse generalmente rivolto ad solem orientem e cioè all’Est: l’alba dei due equinozi. Benché questa non fosse affatto, nella pratica, una regola fissa (molti luoghi di culto erano orientati al sorgere del Sole in altre date: in genere corrispondenti a particolari festività liturgiche o al giorno della festività del santo cui la chiesa era dedicata) ciò rappresenta comunque una prova tangibile del profondo radicamento del simbolismo solare nell’architettura liturgica medievale.
Nella costruzione di una chiesa quindi non era raro andare ben oltre al semplice orientamento Est-Ovest (Di Bennardo, 2005): nella figura qui a fianco si vede chiaramente che l’intera pianta dell’edificio era costruita attorno ai movimenti annuali del Sole. La figura geometrica di base era il cosiddetto “Poligono di Dio”, ovvero il decagono inscritto in un cerchio (Gaspani, 2000, pp. 24-33), da notare il simbolismo del numero dieci, simbolo di perfezione, di totalità e nel contempo di “ritorno all’unità” (Feuillet, 2007, p. 41).

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In aiuto dei costruttori, nell’allineare la chiesa ai movimenti solari, viene anche la geometria. Utilizzando ad esempio una maglia costruttiva costituita da quadrati e rettangoli aurei (vedere la figura a fianco) possiamo individuare con buona approssimazione (limitatamente alle nostre latitudini) la posizione del sole (indicata come altezza angolare) al mezzogiorno di solstizi ed equinozi.

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L’utilizzo della luce solare all’interno delle chiese non rispondeva solo a questo simbolismo, aveva anche una funzione calendariale. I luoghi di culto medievali erano pensati come delle giganteschi orologi solari che scandivano il tempo della liturgia nei vari giorni dell’anno. Come un enorme calendario figurato, la luce colpiva nell’arco dell’anno differenti parti della chiesa, illuminando ogni volta gli affreschi del “santo del giorno” o della festività da celebrare. Un utile aiuto per gli ecclesiastici ed un “prodigio” per i fedeli. Spesso, soprattutto nell’architettura protoromanica (Pejakovic, 1982) troviamo chiese apparentemente sgraziate, prive in certi dettagli di quella simmetria che la tradizione classica ci ha insegnato ad amare: all’origine di tali “licenze sintattiche” c’era proprio la necessità di orientarsi con particolari momenti del percorso del Sole.
Esempio classico è quello delle finestre “disassate” rispetto alla linea di simmetria della facciata (vedi figura), esse erano in realtà direzionate verso particolari momenti dell’anno, in genere l’alba o il tramonto di una particolare festività.

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Altri momenti importanti in cui “catturare la luce” nelle chiese erano le cosiddette ore canoniche (ore di prima, sesta – il mezzogiorno astronomico – e nona).
Esse si basavano sul sistema di computo orario in vigore in quel periodo, le cosiddette “ore temporarie”: la giornata (dall’alba al tramonto) veniva divisa in dodici parti uguali, sempre differenti da quelle del giorno precedente e di quello successivo. Questo avveniva per il continuo aumentare e diminuire delle ore di luce durante l’anno: al solstizio d’inverno ogni singola ora durava solo circa 45 minuti, mentre a quello estivo essa raggiungeva circa i 70. Agli equinozi (quando giorno e notte si equivalgono perfettamente) le ore temporarie coincidevano con quelle attuali, dette meccaniche perché nate con l’introduzione degli orologi, e duravano 60 minuti.


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Vista la continua variabilità, nel corso dell’anno, della durata oraria, in ambito ecclesiastico si ricorreva a metodi semplificati ed approssimati per individuare il giusto momento i cui celebrare le funzioni.

In genere veniva utilizzato uno gnomone diviso in 12 parti uguali, che era usato durante tutto l’anno (in altri casi gli orologi solari erano due, uno per il periodo estivo e l’altro per quello invernale) (Arnaldi, 2011, pp. 155 e segg.).

Per adeguare tale meridiana alle varie stagioni, venivano utilizzati dei veri e propri “libretti di istruzioni” che indicavano per ogni mese (e per ogni funzione liturgica della giornata) a quale parte del quadrante si dovesse fare riferimento.

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Anche in assenza di un orologio solare, erano stati inventati vari metodi per ottenere un’indicazione di massima sull’orario. Di giorno ad esempio, come testimonia il fol.42r del manoscritto Paris B.N. lat. 10837, veniva utilizzato uno schema che permetteva di ricavare le ore canoniche semplicemente conoscendo l’azimut di alcune direzioni (Arnaldi, 2011, pp. 206 e segg.). Altro metodo antichissimo era quello di ricavare l’ora dall’ombra del proprio corpo, come sempre aiutati da tabelle per i vari periodi dell’anno (Arnaldi, 2011, pp. 201 e segg.).

Per il periodo notturno, era stato invece creato una specie di rudimentale notturlabio, un tubo attraverso il quale osservare la rotazione di una stella di riferimento (chiamata computatrix) intorno alla stella polare (polus). Visto che tale moto rotatorio è costante in ogni momento dell’anno, era sufficiente osservare la posizione della stella “calcolatrice” al tramonto per sapere dove sarebbe andata a posizionarsi allo scoccare delle varie Veglie notturne e nei vari momenti della liturgia (Arnaldi, 2011, pp. 211 e segg.).

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Abbiamo però conferma del fatto che anche gli edifici sacri venivano utilizzati come dei “giganteschi orologi solari”. Sono stati trovati due documenti che contengono tutte le indicazioni necessarie ad individuare l’orario diurno e notturno: in un caso semplicemente traguardando, dall’interno della navata della chiesa di Villers (Belgio), il sole o le costellazioni visibili attraverso le finestre (Paul Sheridan, Les inscriptions sur ardoise del l’abbaye de Villers , in “Annales de la Sociètè d’Acheologie de Bruxelles”, t. II, 1896); nell’altro osservando gli astri che nel corso dell’anno passavano sopra a particolari punti del chiostro di un’abbazia francese non identificata (Giles Constable, A Monastic Star time – table, in Consuetudines benedectinae variae (saec. XI - saec. XIV), Sieburg 1975).

In generale, gli antichi adottavano vari sistemi per dividere la giornata. Si utilizzavano come detto ore di differente lunghezza per ogni giorno dell’anno (ore ineguali) oppure quelle (come le nostre di 60 minuti) di durata costante (ore uguali).

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Alla prima categoria, oltre alle suddette ore temporali, troviamo le ore planetarie: esse (di origine probabilmente babilonese) si basavano sul percorso in cielo dei segni zodiacali sull’Eclittica. In genere c’erano due differenti modi per computarle: o si divideva l’eclittica in archi uguali di 15° gradi ciascuno (circa mezzo segno zodiacale per ogni ora) oppure si sceglieva di suddividere lo zodiaco in parti di diversa ampiezza, coincidenti con l’effettiva estensione in cielo delle costellazioni dello Zodiaco. Con quest’ultimo metodo, si otteneva una giornata divisa in ore sempre diverse, anche all’interno dello stesso giorno (a segno zodiacale più grande, corrispondeva un’ora più lunga): facile intuire quanto poco esse fossero utilizzate (Arnaldi, 2011, pp. 54 e segg.).

Alla categoria delle ore uguali o equinoziali appartenevano invece tutti gli altri metodi che semplificavano il computo utilizzando per ogni giorno dell’anno sempre ore della stessa durata, calcolate sul periodo di luce degli equinozi (da cui prendono il nome). Esse quindi dividevano il giorno in dodici parti uguali: dall’analoga ripartizione della notte ricaviamo in totale le ventiquattro ore moderne.
La suddivisione oraria moderna deriva dal computo a media nocte, detto anche delle ore francesi: esso infatti faceva iniziare la giornata alla mezzanotte. La giornata era divisa in una metà antimeridiana (prima del mezzodì) ed in una metà pomeridiana: è per questo che ancora oggi l’ora successiva al mezzogiorno è anche chiamata “l’una” (Arnaldi, 2011, pp. 54 e segg.).
Una divisione della giornata con inizio, invece, al mezzogiorno (a meridie) era in uso tra gli astronomi, in quanto semplificava le loro verifiche (Arnaldi, 2011, p. 64).

In Italia, fino alla fine del settecento, si utilizzavano invece le ore ad occasu, (ore italiche) che iniziavano al tramonto del sole: siccome esso cade ogni giorno in un momento diverso, questo comportava che anche l’inizio della giornata non cadesse mai due giorni successivi nello stesso preciso orario. Questo oggi rappresenta probabilmente una difficoltà aggiuntiva, abituati come siamo agli orologi meccanici, ma non lo era affatto nell’antichità, quando la vita era scandita esclusivamente dal moto del Sole (Baj, 2000, p. 76 - Arnaldi, 2011, p. 141) Questa difficoltà non ha impedito comunque la realizzazione nel 1443 di un orologio meccanico ad ore italiche all’interno del Duomo di Firenze, disegnato da Paolo Uccello: esso (unico nel suo genere) è ancora oggi perfettamente funzionante. Ogni settimana esso viene regolato e “sincronizzato” sul tramonto reale (Bigi, Mureddu, 2008, pp. 22 e segg.).

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Situazione esattamente speculare rispetto al sistema italico valeva per le ore babiloniche, che iniziavano ab ortu, col sorgere del Sole (Arnaldi, 2011, p. 66). Il metodo, in uso nell’antica Mesopotamia, venne poi ripreso in età medievale con le cosiddette ore di Norimberga: un tipo di computo, utilizzato solamente in poche città della Germania meridionale che combinava insieme il metodo ab occasu italiano con quello legato all’alba (Arnaldi, 2011, p. 64).
 
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