IL CIELO ANTICO: LE COSTELLAZIONI E LO ZODIACO
Prendendo in considerazione le
stelle fisse, va detto che esse furono (fin dalla più remota antichità) associate in costellazioni. Il criterio per il raggruppamento è unicamente quello della vicinanza “apparente” nel cielo. Fanno parte di una stessa costellazione stelle anche lontanissime nello spazio tridimensionale, ma apparentemente vicine nello spazio “appiattito” della volta celeste, osservata dal nostro pianeta.
Le costellazioni attuali hanno quasi tutte un’origine antichissima (per lo meno quelle del nostro emisfero, perché quelle australi risalgono ovviamente all’età delle grandi esplorazioni oceaniche). Solo gli “spazi vuoti” poco luminosi ospitano asterismi che risalgono ad un’epoca a noi più vicina. Quasi tutte le costellazioni nascono in Mesopotamia e qualcuna conserva ancora “intatto” il proprio simbolismo originario.
Un esempio è il
Capricorno, il capro-pesce sumerico SUHUR.MAS, di natura anfibia ed ambivalente: per metà sott’acqua e per metà arrampicato sulla terra. Esso rappresentava il
solstizio d’inverno, col sole appunto a metà tra gli abissi dell’oscurità e la lenta risalita verso la primavera (Cattabiani, 2001, pp. 215- 226).
Il simbolismo originario è però spesso meno facilmente riconoscibile, poiché nel periodo greco buona parte delle costellazioni (pur mantenendo generalmente l’antica iconografia) è stata “rivisitata” in base alla cultura del tempo.
Si è verificata quindi una vera e propria “grecizzazione” delle costellazioni, associate con personaggi provenienti dai miti dell’Ellade. Questo è evidente nei casi di
Orione, Ercole, Perseo o dei Dioscuri
Castore e Polluce (costellazione dei Gemelli): si tratta di vere e proprie “
apoteosi”, cioè “assunzioni in cielo” di mortali per premiarne le gesta eroiche, oppure per sottrarli ad un pericolo imminente. A quest’ultima categoria appartengono le
Pleiadi, asterismo oggi accorpato al Toro ed identificato con sette sorelle (una per stella) in eterna fuga dalle attenzioni del cacciatore Orione.
Ci sono dei casi in cui in cielo troviamo traccia evidente di questo continuo
opus in fieri: vi sono infatti alcune costellazione letteralmente “troncate”, monche di alcune parti del corpo. Ciò che è stato rimosso ha dato vita ad un nuovo asterismo, è il caso di
Pegaso, Toro e Scorpione.
Del celeste cavallo alato, asterismo di origine mesopotamica -rappresentava il Paradiso- (De Santillana, Von Dechend, 2003, pag.565 e segg.), non resta che la parte anteriore: il resto è stato inglobato dai Greci in
Andromeda. Anche il
Toro ha subito la medesima ”amputazione” degli arti posteriori, destinati a diventare il corpo dell’Ariete (Cattabiani, 2001, pp. 58-61)
Simile destino hanno avuto anche le chele dello
Scorpione, che sono state spesso sovrapposte alla costellazione della
Bilancia: questo spiega perché spesso le due costellazioni siano state raffigurate insieme.
In realtà, la costellazione della Bilancia esisteva già in Mesopotamia ed ancora una volta sono stati i Greci a inserire la variante: lo Scorpione è stato da loro ingrandito, inglobando la
Libra.
Essa venne quindi trasformata nell’asterismo delle
Chelai (le chele). In età romana è documentata l’ennesima
variatio: la Bilancia venne raffigurata assieme alla
Vergine (il segno precedente) in modo da eternare in cielo l’effigie della
Giustizia (Cattabiani, 2001, pp. 180-190) Il simbolismo originario di questa costellazione aveva invece radici puramente astronomiche: l’equilibrio tra i suoi due piatti stava a rappresentare l’
equinozio d’autunno (periodo nel quale il sole sorgeva davanti a questo asterismo), con la sua perfetta uguaglianza tra ore di luce e di oscurità.
Parlare diffusamente di ognuna delle costellazioni antiche è in questa sede impossibile: per un approfondimento si rimanda a
Planetario di
Alfredo Cattabiani.
Nonostante ciò, é necessario menzionare ancora almeno un esempio.
Nell’area circumpolare troviamo, oltre alle due Orse ed alla stella polare, la grande costellazione del
Drago: essa era particolarmente importante perché ospitava al suo interno il
centro dell’asse di rotazione precessionale.
Ciò si può osservare nell’immagine qui a fianco: la circonferenza rappresenta l’insieme di punti che sono stati nei millenni passati (e saranno in quelli futuri) “
stelle polari”. Questa è naturalmente una semplificazione, perché non sempre lungo quel cerchio sono visibili delle stelle. Più correttamente esso può essere definito
luogo dei “poli nord” celesti.
Lo spostamento polare è determinato dalla
precessione degli equinozi, ovvero dal continuo lento cambiamento dell’asse di rotazione terrestre.
Il movimento è assimilabile a quello di una
trottola che, oltre a ruotare su se stessa (pur mantenendo costante la propria inclinazione dal suolo), continua a spostare il proprio asse di rotazione lungo una circonferenza: esattamente il cerchio rappresentato intorno alle spire del Drago nella figura più sopra.
Di conseguenza, quella che oggi chiamiamo Stella Polare non era tale nei millenni passati, il polo Nord si è quindi spostato attraverso (in senso orario nella figura sotto)
Ercole,
Lira (Vega, una delle stelle più luminose),
Cigno,
Cefeo ed il
Drago stesso.
Lo stesso fenomeno processionale influisce anche sui
punti di levata e tramonto di ogni costellazione non circumpolare: ciò che un tempo ad esempio sorgeva ad un dato azimut oggi avrà la sua levata in ben altra zona. Per questo, in archeoastronomia gli allineamenti stellari sono molto meno facili da individuare rispetto a quelli di Sole, Luna e pianeti: questi ultimi si ripetono ancora oggi esattamente come allora (e sono quindi verificabili anche con l’osservazione diretta) mentre quelli
ad sidera, sono riproducibili solo al computer.
Altra importante conseguenza del moto della precessione è lo
“scivolamento” dell’equinozio di primavera (e quindi di tutti i mesi successivi) da un segno zodiacale al precedente. Oggi ad esempio il sole equinoziale sorge nella costellazione dei
Pesci: questo avviene da duemila anni, proprio dalla nascita di Cristo -e difatti il simbolismo dell’
Ichthus, del Cristo/Pesce paleocristiano è talvolta messa in relazione proprio con l’inizio dell’
Era dei Pesci (Charbonneau Lassay, 1994, p. 314). Tra meno di cent’anni il sole equinoziale sorgerà invece nell’
Acquario, dando origine alla tanto celebrata età omonima. Prima dei Pesci si sono alternate l’
Età dell’Ariete e quella del
Toro, che quest’ultima coincide col periodo sumerico-babilonese.
Infine, in epoca ancora più remota, prima dell’invenzione della scrittura, c’è stata l’
Età dei Gemelli che era ritenuta dagli antichi (sempre per ragioni astronomiche) un’epoca di armonia universale, la famosa
Età dell’oro in cui dei e uomini vivevano in pace. Un periodo ormai definitivamente tramontato, almeno fino al compiersi del ciclo processionale: un “ritorno ai Gemelli” che però è ancora lontano migliaia di anni (De Santillana, Von Dechend, 2003, p. 304).
Ovviamente, tra le costellazioni antiche, un posto di primissimo piano è ricoperto dai dodici segni dello
Zodiaco, una striscia di cielo posta sull’
eclittica (l’orbita su cui scorrono tutti i pianeti del sistema solare)
Vista in ottica geocentrica, quest’ultima costituisce il “percorso” di Sole e pianeti (la Luna segue un cammino lievemente diverso) nel cielo.
I segni zodiacali sono dunque quelli attraversati dall’eclittica; per la precisione va detto che nella moderna astronomia le costellazioni attraversate da questa linea sono in realtà tredici: anche l’
Ofiuco o Serpentario ne è marginalmente interessato, ciò nonostante esso non è mai stato stato considerato parte dello Zodiaco (Tempesti, 2006, p. 17).
L’utilizzo dei segni zodiacali si rivelò molto utile per il
computo del tempo, permettendo un’agevole determinazione della durata dell’anno solare, di quello lunare e dei cicli planetari semplicemente calcolando il tempo impiegato, dal corpo celeste in esame, a ritornare “al punto di partenza” in una particolare parte dello zodiaco. In genere come punto iniziale di riferimento veniva adottato il cosiddetto
punto vernale, ovvero l’equinozio di primavera.
A noi moderni pare abbastanza intuitivo prendere l’eclittica e lo zodiaco a riferimento per le osservazioni astronomiche. La cosa invece non era affatto scontata. I
babilonesi ad esempio utilizzavano anche ad un sistema di “
triadi di stelle”: per ogni mese sceglievano tre stelle che sorgevano contemporaneamente al sole (in
levata eliaca), una per la fascia zodiacale (
via di Anu, lettera A in figura), una per la parte alta del cielo (sopra il 30° parallelo nord, detta
via di Enlil, lettera B) ed una per la zona più bassa rispetto all’equatore celeste (
via di Enki, sotto il 30° parallelo sud). Ci sono pervenute antiche tavolette nelle quali il ciclo annuale era catalogato appunto da questa successione di triadi (Aveni, 1994, p. 193).
Gli antichi Egizi, invece utilizzavano i cosiddetti “
decani”: in breve essi suddividevano l’anno in 36 decadi di 10 giorni. L’ultima costellazione a sorgere prima dell’alba (sempre la cosiddetta levata eliaca) era il “decano” che dava il nome a ciascuna delle decadi. Ogni 30 giorni quindi c’erano tre decadi e tre decani. Non si sa con certezza quali fossero le costellazioni prese a riferimento: si sa solo che la stella Sirio (per noi occidentali nell’asterismo del Cane Maggiore) faceva parte di questo gruppo. Si ritiene che la fascia dei decani fosse parallela a quella dello zodiaco ma che nessun segno zodiacale vi fosse compreso (Pichot, 1993, p. 233).
Il metodo decanale venne poi completamente snaturato in età ellenistica con Tolomeo ed inserito all’interno dell’astrologia greco-babilonese. Nel famoso
Zodiaco di Dendera possiamo ad esempio vedere convivere sia il vecchio cielo egizio (costellazioni autoctone e decani) sia le costellazioni zodiacali importate dalla Mesopotamia.
In chiave più prettamente archeoastronomica, troviamo un ottimo esempio di
allineamento a costellazioni proprio in Egitto, con la
piramide di Cheope. Questo colossale monumento (esattamente orientato sui punti cardinali) appartiene ad un complesso molto esteso,
Giza, di cui fanno parte anche la Sfinge e le piramidi di
Chefren e
Micerino. Sono state fatte molte ipotesi sul simbolismo di questi capolavori ma purtroppo, dal punto di vista puramente archeologico, le certezze restano molto poche. Senza sconfinare nel “mistero” fine a se stesso, l’archeoastronomia (pur senza poter aggiungere quasi nessuna certezza) può comunque fornire chiavi di lettura nuove in grado di stimolare le ricerche future.
Si è ad esempio molto discusso, a proposito della Grande Piramide, dei cosiddetti “
condotti di aerazione” o “
pozzi di ventilazione”: in realtà questi nomi non rispecchiano probabilmente la loro reale funzione e si ritiene avessero valenza puramente simbolica.
Si è scoperto infatti che, all’epoca di costruzione, essi probabilmente “puntavano” ad alcune tra le costellazioni più significative per la religione egizia: Cane Maggiore (verso
Sirio:
Iside per gli Egizi), Cintura di
Orione (costellazione associata ad
Osiride, re dei morti), Drago (che ospitava all’epoca la
stella polare) ed
Orsa Minore.
Gli antichi
Testi delle Piramidi (una sorta di manuale per il viaggio ultraterreno del faraone) ci possono chiarire meglio la ragione di questo orientamento: dopo l’ascensione assieme al Sole, il defunto, nel suo viaggio attraverso la
Via Lattea (vista come un lungo fiume tortuoso) ha due mete finali per ottenere la rinascita: le “
stelle imperiture” (quelle cioè intorno alla
stella polare) e le “
costellazioni del Sud”,
Orione e
Toro. Appare dunque plausibile l’ipotesi che tali condotti non fossero altro che delle “guide” per instradare l’anima del sovrano verso le tappe del suo viaggio.
Alcuni hanno addirittura ipotizzato che la piana di Giza ed i suoi dintorni vadano in realtà considerate, nella loro interezza, come una “proiezione in terra” delle “costellazioni del Sud”. Posta l’ovvia associazione tra il fiume celeste della
Via Lattea ed il
Nilo, osservando la mappa dell’area possiamo senza fatica osservare come le
tre piramidi siano disposte proprio come le stelle della
Cintura di Orione. Altri monumenti nelle vicinanze completano il disegno della costellazione di Orione e dell’asterismo delle
Iadi, nel Toro (Magli, 2006, cap. 17 e 18).